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25/04/2010

Commenti

Luigi Rosa

Ora, capisco che i[Phone|Pad] sia l'oggetto trendy-fighetto del momento, ma che sul sito di paperlit scrivano "mobile readers" (plurale) e "multiplatform" e poi mi parlino di AppStore e solo del device di Apple...

Poi magari funziona anche su tutti i device mobili, ma almeno un po' di diversificazione...

Andando a vedere nel loro sito, Paperlit e' incorporata nel Delaware (ovvio), e basata a Menlo Park, CA, cittadina che secondo Wikipedia "Much of Menlo Park's economy centers around the companies on Sand Hill Road, consisting of venture capital, private equity, financial services, law firms, and other professional service companies and investment vehicles focusing on technology."

Gregorio

C'è la faccenda spinosa che i giornali ogni anno si spartiscono un miliardo di fondi pubblici. Dati sul numero di copie stampate, non sul venduto, tanto che in ogni città sono comparsi giornali di carta distribuiti gratis. Come si fa a chiedere soldi per l'online se già il cartaceo è abbondantemente sepsato dal contribuente?

Secondo me è piu facile che ottengano la minitassa sul web che non tanti minipagamenti per abbonamento online. Non so perchè ma mi viene in mente il ritornello della loro pubblicità di qualche anno fa: "E' la tampa bellezza, è la stampa. E tu non puoi farci nulla..."

C.la

Sarò orbo, ma non vedo nessuna edizione cartacea da visualizzare online.. mi son perso qualcosa?

e btw, il viewer flash di Repubblica cartaceo (ho visto la demo) fa vedere l'articolo testuale in un riquadro (non ridimensionabile) largo circa 300-400 pixels, quando lo stesso articolo aperto nel browser me lo posso leggere a schermo intero (e col font di dimensione che preferisco). Ancora non ci siamo.

ciro

Luigi Rosa: tecnicamente la piattaforma del client scelta e' praticamente irrilevante (scrivere un viewer come quello che Paperlit usa su Iphone e' roba di un pomeriggio... avrebbero almeno potuto aggiungere la possibilita' di saltare alla pagina desiderata e fare una ricerca sul testo) e quello che vendono in Paperlit e' la soluzione completa di hosting dei contenuti online. Tutto si gioca sui vari accordi commerciali con le singole testate e decidere le forme di pagamento/abbonamento. Fino ad ora gli utenti Apple sono quelli educati meglio a pagare. La cosa di riuscire a far mangiare agli utenti un ambiente cosi' chiuso inlotre (dove non e' possibile scaricare da o sul device niente usando un computer ma solo online) e' molto apprezzato da chi deve fornire i contenuti. Non capisco molto l'avere una sede in California ma mi rendo conto che possa fare molta scena :).

francesco

Io sono uno dei primi abbonati al Manifesto on line (saranno ormai 5 anni), tutti i giorni mi scarico il pdf e se avessi più tempo lo leggerei anche (in ogni caso ora ho un bell'archivio su cui posso fare delle ricerche). La cosa più scomoda è che il formato del giornale è poco adatto alla visualizzazione su PC, figuriamoci su un iPad o simili. Non desidero però un altro formato, perché anche l'impaginazione originale è importante.
Repubblica non è scaricabile (altrimenti chi acquista il servizio potrebbe mandare ad amici e conoscenti il giornale, delitto terribile!), e il player è scomodo (sicuramente lo miglioreranno). Però solo 10 giorni di archivio arretrati sono proprio pochi. La cifra mi sembra elevata visto che scaduto l'abbonamento non mi rimane nulla in mano, almeno la versione cartacea la posso usare per imballarci qualcosa.....

Ciro

Francesco: buoni spunti di ragionamento. Come si e' gia' detto in un post su Gaspar Torriero il "lettore tipico" dell'Economist (ma anche del Manifesto) "vale" molto di piu' di un lettore Repubblica/Corriere ed e' molto meglio disposto a pagare per la qualita' che riconosce nel prodotto o servizio. Quella del giornale in 'streaming' e' l'unica soluzione riconosciuta praticabile dal mercato fino ad ora (i pdf dell'Economist finiscono regolarmente nei circuiti torrent e senza una base di lettori "maturi" l'operazione non sta in piedi. Paperlit vende diverse soluzioni proprio per calibrarsi su questa variabile del contratto di abbonamento che hai messo in evidenza (e che solitamente non viene considerata): il numero di arretrati disponibili (600 dollari per un anno di arretrati 1000 gb di traffico disponibile mensile e 5000 licenze Iphone (?questo pero' non lo capisco?). In linea teorica il mercato dovrebbe prevedere una sorta di documento di possesso unico e multipiattaforma legato quindi al prodotto piuttosto che al singolo client (client=dispositivo): acquisto il numero 3/2010 dell'Economist e posso (ri-)scaricarmelo su qualsiasi supporto da qualsiasi store in qualsiasi momento. E magari avere ads diversi per tipologia di client/customer e soprattutto sempre aggiornati (anche per sugli archivi).

emma

@francesco: corretto, non è scaricabile http://bit.ly/5y2DN

twitter.com/alessiodd

Ma che queste nuove iniziative editoriali abbiano una struttura di costi "snella" non deriva dal fatto che in fin dei conti più che scovare la notizia, rimasticano? Voglio dire, lo "stare sul pezzo" è un accessorio del giornalismo di cui oggigiorno possiamo fare a meno? Ci accontentiamo della faccia e della firma?

francesco

@emma: bisogna vedere la fonte da cui proviene il file, sono cosciente che le protezioni siano bypassabili (però bisogna esserne capaci), quello che contesto è che se acquisto la possibilità di leggere qualcosa, limitare questa possibilità a 10 giorni di tempo mi sembra davvero poco.
Il file che ho visto è di 14 MByte che non sono pochi se uno usa una connessione mobile, forse si scoprirà che non tutte le 50 e oltre pagine di Repubblica sono interessanti (perchè devo consumare banda per i paginoni pubblicitari?)

Stefano Quintarelli

@alessiodd: in teoria hai ragione, ma mi puoi indicare contenuti non rimasticati dei maggiori quotidiani ?

twitter.com/alessiodd

@ Stefano
Ma certo, a guardare i media nazionali come riferimento di giornalismo sano e imparziale fa ridere più che chiamare giornalismo quello che si fa in molte celebrate "redazioni" 2.0. Ma andiamo un passo indietro: quanto la forzata gratuità di quel che altrove (sulla carta) si è sempre pagato, aiuta il giornalismo di qualità?

Mettiamo, dico mettiamo, che ci sia una testata su 100 che potendo, farebbe bene il suo lavoro. Dovrebbe sostenersi a colpi di € 0,20 CPM?
Mi pare che si stia generando un'equazione perversa: senza costi snelli non stai sul mercato, ma con una redazione "sul pezzo" non hai costi snelli. Quindi il giornalismo di qualità, quello che anche l'Italia talvolta ha prodotto, è strutturalmente fuori mercato? Roba del passato?

Quindi il futuro appartiene a testate di 5 persone che coprono orizzontalmente tutti i settori dello scibile, se va bene con qualche bella firma di cui ci fidiamo per reputazione o più facilmente per sentito dire. Nell'assenza di alternative, non pagando, potrei accontentarmi, ma siamo certi che non abbiamo perso qualcosa per strada?

Infine, non è che gli attuali strumenti di remunerazione delle news gratuite, non sono strutturalmente in grado di restituirci un giornalismo indipendente e approfondito, nemmeno nella lontana ipotesi in cui qualcuno avesse intenzione di farlo?

Stefano Quintarelli

alessio, si, ma ce lo siamo gia' perso.
i maggiori quotidiani ripubblicano notizie di agenzia. il giornalismo investigativo oramai si fa poco, molto poco. e chi lo fa lo vende a tanti editori in molti luoghi.
Poi, non devi dirlo a me che bisogna trovare meccanismi di remunerazione alternativi.
se non lo hai fatto, ti invito a leggere http://bit.ly/monetizzareAbbondanza

twitter.com/alessiodd

Stefano, ti ringrazio per la segnalazione, leggerò con attenzione quel documento. Io sono abbonato a un giornale che fa ancora giornalismo di qualità, ma non dico qui quale perché ci porterebbe su terreno OT. Per quel giornale pago e, dal momento che pago, esigo un livello alto che per ora ritengo all'incirca mantenuto.

Se un solo abbonato venisse tolto a quel giornale a causa della falsa convinzione, strombazzata da chiunque ai quattro venti, che il "giornalismo" 2.0 ne sia un valido succedaneo (e poi vuoi mettere? è anche gratis!), sarebbe una perdita considerevole, anche per chi non lo compra.

Osservo con rammarico la deriva presa dalla stampa tradizionale, ma non posso escludere che a questa deriva abbiano partecipato significativamente scelte strategiche sbagliate fatte negli anni in cui sembrava che Internet avesse il potere taumaturgico di trasformare le perdite in guadagni.

In altre parole, il "tutto gratis" tanto l'abbiamo voluto che alla fine ce l'abbiamo avuto, e ora ce lo teniamo con tutti i relativi effetti collaterali.

Stefano Quintarelli

evidentemente non mi leggi da molto...

il "gratis" non esiste.
esiste il "pagato dalla pubblicita"

ma scrivo e ripeto che la pubblicita' non e' sufficiente a reggere molti business model (anche perche' nella pubblicita' c'e' un monopolio di gente stra-brava) http://is.gd/bLQo7 http://is.gd/bLQdv

e non si puo' vivere di sola cioccolata. http://is.gd/bLQtp
se qualcuno te la regala, c'e' un perche'.

allora, che fare ?

1) piangere
2) chiedere sussidi
3) abolire la commutazione di pacchetto
4) picchiare chi ha successo e tu no
5) proporre una soluzione da tentare

ecco, sono 5 anni che noi lavoriamo per provare la 5...

twitter.com/alessiodd

Stefano, ammetto che ti leggo spesso ma non abbastanza come vorrei. Di mestiere vendo pubblicità per una testata online e il mio lavoro consiste esattamente nell'aiutare tenere in strada la carrozza con o senza Adsense.

Per come la vedo, il problema è culturale e stratificato negli anni in cui da un lato si è creduto che la pubblicità potesse mantenere in piedi qualunque carrozzone, dall'altro si sono messi in moto sistemi perversi per i quali il marketing manager si fida ciecamente dei GRP di quattro 6x3 sulla tangenziale, ma poi se ti compra 100€ di banner si mette davanti al computer a refreshare e ti chiama 5 volte al giorno, o magari pretende CPC, CPA e cerca di pagarti con scambio merce.

Non parliamo poi dell'arte divinatoria necessaria a sviluppare previsionali sulle entrate da Adsense, Vibrant et similia, e sorvoliamo sui CPM delle concessionarie e sui milioni di unici necessari per poter sperare di campare di pubblicità a queste condizioni. Il tutto sotto il fuoco incrociato dei social e dei relativi trombettieri, sempre pronti a contrabbandare opinioni pilotate e prezzolate per degnissime iniziative di marketing, attraverso la logica degli “influencer”, nell’assenza di qualsivoglia controllo (come quello che la FTC negli USA ha invece imposto contro queste forme di pubblicità ingannevole).

Questi mi sembrano in estrema sintesi gli elementi del trappolone in cui si trovano oggi tanto gli editori arrivati sul Web dalla carta senza chiedersi come guadagnare, tanto quelli che hanno iniziato dal Web contando sulla pubblicità.

Il potere erosivo di questi fattori è enorme rispetto a tutta la filiera del giornalismo. Dai costi di professionalità e indipendenza (le marchette convengono in tempi di magra e quando la pubblicità sparisce dagli spazi deputati, finisce fra le righe degli articoli) fino alla difficoltà nell’investire sulla qualità, trovandosi costretti a puntare tutto sul mantenimento o la riduzione dei costi.

Il tutto, ovviamente, al netto dei deprecabilissimi privilegi maturati in anni di vacche grasse, però più sulla stampa che sul web.

Ora lungi da me fare l’avvocato difensore del giornalismo nazionale, ma arrivare dopo dieci anni di questo regime, le cui diseconomie sono chiare a tutti, a puntare il dito contro la qualità delle redazioni “tradizionali”, somiglia in parte ad uno scambio degli effetti (un giornalismo di scarsa qualità) con quelle che potrebbero esserne perlomeno le concause.

Per inciso, il giornale a cui sono abbonato vive senza privilegi e sussidi, in qualche modo dimostrando che la consapevolezza della differenza fra informazione di prima mano e rimasticata - chiunque sia a rimasticarla - è sufficiente a sostenere un giornalismo né approssimativo né servo di gruppi di potere.

In quanto al punto 5, verrei a lavorare anche gratis in un posto dove le migliori menti del web italiano si confrontano per cercare la sostenibilità del giornalismo di qualità, prima che anche l’ultimo giornalista apra il suo blog e si metta a twittare in cambio del nuovo modello di smartphone.

Ma con riferimento a questo obiettivo, con tutto il dovuto rispetto, credo che la competizione attraverso la riduzione dei costi e il ricorso al “face value” di qualche firma prestigiosa da apporre sotto pezzi rimasticati, rischi di accelerare la spirale più che fermarla. :-)

Stefano Quintarelli

su questo non ci piove.
Internet (l'elettronica) è un solvente (quasi) universale.

twitter.com/alessiodd

Già, ma come evitiamo che la corrosione riguardi anche il buono? Ho letto il documento sula fine della distribuzione aggregata, il modello è brillante e non fa una piega. Ma chi accederebbe agli emolumenti? Tutti nello stesso mazzo, indipendentemente dal grado di "prossimità" rispetto ai fatti e alla competenza? Giornalisti, professori, imprenditori, marchettari e friggitori di patatine tutti nello stesso calderone?

In altre parole, se è la preservazione della qualità l'obiettivo che ci prefiggiamo, siamo certi che sia proporzionale al traffico sviluppato da una testata o da un atomo di contenuto? Fra molte ottime cose portate dal web, non abbiamo visto trionfare, al pari stavolta della carta, il sensazionalismo e l'approssimazione della peggior specie, in barba alle profezie sull'abbattimento del gatekeeping culturale e il trionfo della "vera conoscenza"?

Stefano Quintarelli

questo e' un problema comune a tutto.
mi padre diceva che la musica che ascoltavo era rumore. come faccio io con mia figlia. la qualità è un target mobile.
una persona di qualità ha altre fonti di remunerazione. forse si andrà verso meno persone di qualità ma persone di maggior qualità.
la storia dell'umanità è una evoluzione di sistemi instabili. bisogna cercare di fare le correzioni che si possono, con cio' che si ha.

twitter.com/alessiodd

Io non credo che tutto sia così arbitrario come il gusto artistico o la moda. La prossimità ai fatti di cui si parla è una discriminante rispetto all'attendibilità di quel che si dice, altrimenti si attiva l'effetto "telefono senza fili".
La competenza nel valutare quei fatti è una discriminante rispetto alla credibilità delle analisi che si sviluppano, altrimenti siamo 60 milioni di CT, ministri dell'economia, presidenti della repubblica e via discorrendo.

Fra cent'anni scommetto che la validità di queste banalità che ho appena scritto resterà intatta, il problema è piuttosto sapere se qualcuno si porrà ancora il problema come stiamo facendo ora.

Già perché nel processo di evoluzione dei media ai tempi di Internet, mi pare di scorgere un progressivo esautoramento del ruolo dell'"esperto" e una certa incapacità di valutare e valorizzare la differenza fra notizie di prima mano e rielaborazioni varie ed assortite (le quali rispetto alla notizia rappresentano un complemento, non un succedaneo).
Abbiamo capito che le logiche del traffico non premiano questi due parametri, il che potrebbe suggerirci una cosa o due sull'intelligenza della massa che ogni evoluzione 2.0 ha posto alle proprie fondamenta ancor prima di riuscire a provare.

È, credo, una questione di metodo, e in qualche misura il parallelo con la musica ci sta. Gli strimpellatori musicalmente sono deboli, senza sequencer, produttori, ghostwriter e addetti immagine valgono zero. Allo stesso modo certi "giornalisti" senza la materia prima da rimasticare balbetterebbero.

Al netto delle perversioni di cui abbiamo parlato estesamente, il giornalismo è un metodo ben definito di descrizione della realtà e mi pare che prossimità e della competenza ne rappresentino due cardini. Rimpiazzare questi cardini con una postulata fiducia della massa - che saprebbe premiare il bene e disincentivare il male - è un po' come, perdonami il paragone un po' ardito, controbattere al metodo scientifico le dottrine creazioniste.

Mal applicato, perfettibile, ma con la pretesa della miglior approssimazione verso l'esattezza il primo, puramente fideistiche e dogmatiche le seconde.

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