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31/10/2010

Commenti

Bubbo Bubboni

Concordo e mi è parso preoccupante che gli economisti locali non si siano indignati rispetto a questo modo di scalare gli euro-specchi che prevede di confondere le carte con un bel mix tra crediti dei privati e debiti del pubblico.

Forse sarà che per il socio Sempronio la differenza tra il proprio patrimonio e quello di Tizio non esiste o può sparire velocemente...

vincenzo

Bel post quello di Davide Giacalone.
Penso comunque che certi atteggiamenti servano a dire all'Europa: "seppur fossimo messi male (e lo siamo) siamo in grado di mettere le mani nelle tasche degli italiani senza rischiare di fare la fine della Grecia."
Per il resto dobbiamo assolutamente puntare sulle "quote verdi", problema che inizia a porsi anche all'interno di taluni schieramenti politici.
Ma come fare a farlo capire ai nostri nonni ?

veditu

Concordo con l'iniquità della decisione di somma il debito pubblico a quello privato.

Quanto al paragone Stato/azienda, mi permetto di fare un appunto: lo Stato, tramite la leva fiscale, ha la facoltà di "imporre" ai propri "azionisti" un "aumento di capitale", cosa che non possono fare spa/srl. La ricchezza dei soci ha quindi la sua (relativa) importanza e non rende così strampalata la sommatoria tra il debito pubblico e il debito privato.

Ciò detto, mille volte meglio meglio un'azienda non indebitata (o con un indebitamento sostenibile) piuttosto che un'azienda in cronica perdita la quale preferisca ricorrere a continui aumenti di capitale piuttosto che "ristrutturarsi".

darmix

Sui cassintegrati non è proprio così, almeno a sentire Ichino:

La questione sta tutta nel fatto che l’Istat non computa tra i disoccupati né i lavoratori in Cassa integrazione, poiché formalmente il rapporto di lavoro di cui essi sono titolari non è cessato, ma soltanto temporaneamente sospeso, né coloro che non manifestano la propria disponibilità al lavoro cercando un’occupazione. La Banca d’Italia, invece, bada più alla sostanza che alla forma, computando tra i disoccupati anche coloro che hanno perso il posto e non ne cercano un altro perché “scoraggiati”, dopo aver trovato troppe porte chiuse; inoltre, computa anche i cassintegrati a zero ore.

Secondo lei quale dei due dati è quello da considerare?
Gli “scoraggiati”, certo, sono sostanzialmente dei disoccupati: computarli come tali è necessario, se si vuole avere una visione realistica della quantità di posti di lavoro che sono andati perduti nel biennio di recessione che abbiamo alle spalle.

E i cassintegrati?
Qui il discorso è più complesso: se la legge venisse generalmente rispettata da imprese e sindacati, essi non dovrebbero essere computati come disoccupati: per legge la Cassa potrebbe erogare l’integrazione salariale soltanto nei casi in cui sia ragionevolmente prevedibile la ripresa del lavoro al termine dell’intervento. Nella realtà, però, è molto diffusa la prassi di chiedere - e di concedere - l’intervento della Cassa anche in situazioni nelle quali è certo che la ripresa del lavoro nella stessa azienda non ci sarà. Questo è il motivo per cui gli analisti della Banca d’Italia considerano come disoccupati anche i cassintegrati a zero ore. In questo modo, certo, il dato sulla disoccupazione si avvicina di più alla realtà. È vero che esso così finisce coll’inglobare anche lavoratori il cui rapporto di lavoro è soltanto temporaneamente sospeso, ma è anche vero che il tasso di disoccupazione viene calcolato così anche in molti altri Paesi, come gli Usa, dove ai fini statistici non si fa differenza tra i lavoratori laid off temporaneamente e quelli laid off definitivamente.

E né gli Usa né altri paesi europei hanno la cassa integrazione simile alla nostra. Credo.

qui il link: http://www.ilsussidiario.net/News/Lavoro/2010/10/29/IDEE-Ichino-Pd-Marchionne-ha-ragione-lasciamoci-alle-spalle-gli-anni-70/122849/

Flavio

Notoriamente il tasso di disoccupazione definisce con esattezza la percentuale di gente che lavora in una data area quanto il PIL definisce la ricchezza di una nazione, ossia poco.

Al di là di differenze significative ma tutto sommato limitate nella misurazione, utili a giustificare situazioni come quella italiana, la cosa più importante viene del tutto trascurata, ossia il fatto che in alcuni paesi la percentuale di persone abili al lavoro ma non impegnate in alcuna attività lavorativa è estremamente alto.

E parliamo del 40% o più, altro che 8% piuttosto che 11%. Tra questi paesi l'Italia, grazie a *lungimiranti* politiche di sostegno alle famiglie e all'imprenditoria e altri interventi tesi a scoraggiare una occupazione giovanile e femminile paragonabile a quella maschile, è ovviamente tra i leader in classifica.

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