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esempi: La nostra produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione....
giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale...
I fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono stati spesi solo per il 15 per cento: quelli non spesi ammontano a 23 miliardi,...
Oggi il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori... le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10 per cento a quelle maschili...
Occorre un maggior numero di imprese medie e grandi che siano in grado di accedere rapidamente ed efficacemente ai mercati internazionali, di sfruttare i guadagni di efficienza offerti dall’innovazione tecnologica...
Fra le imprese manifatturiere con almeno 10 addetti, quelle in cui sia il controllo sia la gestione sono esclusivamente familiari sono il 60 per cento in Italia, meno del 30 in Francia e in Germania...
Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche...
...Senza sacrificare la spesa in conto capitale oltre quanto già previsto nello scenario tendenziale e senza aumentare le entrate, la spesa primaria corrente dovrà però ancora contrarsi, di oltre il 5 per cento in termini reali nel triennio 2012-14, tornando, in rapporto al PIL, sul livello dell’inizio dello scorso decennio.
Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie; sarebbero difficilmente sostenibili nel medio periodo; penalizzerebbero le amministrazioni più virtuose. Una manovra cosiffatta inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia, fino a sottrarle circa due punti di PIL in tre anni.
Occorre invece un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato; affinando gli indicatori di efficienza dei diversi centri di servizio pubblico (uffici, scuole, ospedali, tribunali) al fine di conseguire miglioramenti capillari nell’organizzazione e nel funzionamento delle strutture; proseguendo negli sforzi già avviati per rendere più efficienti le amministrazioni pubbliche; impiegando una parte dei risparmi così ottenuti in investimenti infrastrutturali.
Andrebbero inoltre ridotte in misura significativa le aliquote, elevate, sui redditi dei lavoratori e delle imprese, compensando il minor gettito con ulteriori recuperi di evasione fiscale, in aggiunta a quelli, veramente apprezzabili, che l’Amministrazione fiscale ha recentemente conseguito.
Una manovra tempestiva, strutturale, credibile agli occhi degli investitori internazionali, orientata a favore della crescita, potrebbe, anche mediante una significativa riduzione dei premi al rischio che gravano sui tassi d’interesse italiani, sostanzialmente limitare gli effetti negativi sul quadro macroeconomico.
Il federalismo fiscale può aiutare, responsabilizzando tutti i livelli di governo, imponendo rigidi vincoli di bilancio, avvicinando i cittadini alla gestione degli affari pubblici. Due condizioni sono cruciali: che i nuovi tributi locali siano compensati da tagli di quelli decisi centralmente e non vi si sommino; che si preveda un serrato controllo di legalità sugli enti a cui il decentramento affida ampie responsabilità di spesa.
Dall’avvio della ripresa, nell’estate di due anni fa, l’economia italiana ha recuperato soltanto 2 dei 7 punti percentuali di prodotto persi nella crisi. Nel primo trimestre di quest’anno il ritmo di espansione è stato appena positivo.
Nel corso dei passati dieci anni il prodotto interno lordo è aumentato in Italia meno del 3 per cento; del 12 in Francia, paese europeo a noi simile per popolazione. Il divario riflette integralmente quello della produttività oraria: ferma da noi, salita del 9 per cento in Francia. Il deludente risultato italiano è uniforme sul territorio, da Nord a Sud.
Se la produttività ristagna, la nostra economia non può crescere.
Il sistema produttivo perde competitività. Si aprono disavanzi crescenti nella bilancia dei pagamenti correnti. Si inaridisce l’afflusso di investimenti diretti: nel decennio sono entrati in Italia capitali per investimenti diretti pari all’11 per cento del PIL, contro il 27 in Francia.
Le dinamiche retributive sono da noi modeste, non potendo troppo discostarsi da quelle della produttività: la domanda interna ne risente. Le retribuzioni reali dei lavoratori dipendenti nel nostro paese sono rimaste pressoché ferme nel decennio, contro un aumento del 9 per cento in Francia; i consumi reali delle famiglie, cresciuti del 18 per cento in Francia, sono aumentati da noi meno del 5, e solo in ragione di una erosione della propensione al risparmio.
La nostra produttività ristagna perché il sistema non si è ancora bene adattato alle nuove tecnologie, alla globalizzazione. Capirne le ragioni è stato l’obiettivo di molta parte della ricerca svolta in Banca d’Italia negli ultimi anni.
Ne ho dato conto più volte, in primo luogo in questa sede. Le nostre analisi chiamano in causa la struttura produttiva italiana, più frammentata e statica di altre, e politiche pubbliche che non incoraggiano, spesso ostacolano, l’evoluzione di quella struttura.
Va affrontato alla radice il problema di efficienza della giustizia civile: la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale; l’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale.
Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l’obiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente.
Troppo ampi restano i divari interni al Paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo. Nell’università è desiderabile una maggiore concorrenza fra atenei, che porti a poli di eccellenza in grado di competere nel mondo; è ancora basso nel confronto internazionale il numero complessivo di laureati. Secondo valutazioni dell’OCSE, il distacco del sistema educativo italiano dalle migliori pratiche mondiali potrebbe implicare a lungo andare un minor tasso di crescita del PIL fino a un punto percentuale.
La concorrenza, radicata in molta parte dell’industria, stenta a propagarsi al settore dei servizi, specialmente quelli di pubblica utilità. Non si auspicano privatizzazioni senza controllo, ma un sistema di concorrenza regolata, in cui il cliente, il cittadino sia più protetto. La sfida della crescita non può essere affrontata solo dalle imprese e dai lavoratori direttamente esposti alla competizione internazionale, mentre rendite e vantaggi monopolistici in altri settori deprimono l’occupazione e minano la competitività complessiva del Paese.
L’Italia è indietro nella dotazione di infrastrutture rispetto agli altri principali paesi europei, pur con una spesa pubblica che dagli anni Ottanta al 2008 è stata maggiore in rapporto al PIL. I programmi del Governo prevedono che l’incidenza della spesa scenda all’1,6 per cento nel 2012, dal 2,5 del 2009; nella media dell’area dell’euro la spesa programmata per il 2012 è del 2,2 per cento del PIL, dal 2,8 del 2009. Incertezza dei programmi, carenze nella valutazione dei progetti e nella selezione delle opere, frammentazione e sovrapposizione di competenze, inadeguatezza delle norme sull’affidamento dei lavori e sulle verifiche degli avanzamenti producono da noi opere meno utili e più costose che altrove.
I progetti finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale vengono eseguiti in tempi quasi doppi rispetto a quelli programmati, contro ritardi medi di un quarto in Europa, e i costi eccedono i preventivi del 40 per cento, contro il 20 nel resto d’Europa. Nell’alta velocità ferroviaria e nelle autostrade i costi medi per chilometro e i tempi di realizzazione sono superiori a quelli di Francia e Spagna, in una misura solo in parte giustificata dalle diverse condizioni orografiche.
È necessario recuperare efficienza nella spesa, anche per sfruttare appieno le risorse dei concessionari privati e quelle comunitarie, che non pesano sui conti pubblici.
A oggi sono stati completati poco più del 60 per cento degli ampliamenti concordati nel 1997 tra l’ANAS e la principale concessionaria autostradale e meno del 30 di quelli decisi nel programma del 2004; il programma più recente, del 2008, è ancora in fase di studio. Le opere da realizzare valgono circa 15 miliardi.
I fondi strutturali comunitari attualmente a nostra disposizione sono stati spesi solo per il 15 per cento: quelli non spesi ammontano a 23 miliardi, a cui va associato il relativo cofinanziamento nazionale. Accelerare tutti questi interventi darebbe un forte impulso all’attività economica.
La diffusione nell’ultimo quindicennio dei contratti di lavoro a tempo determinato e parziale ha contribuito a innalzare il tasso di occupazione, ma al costo di introdurre nel mercato un pronunciato dualismo: da un lato i lavoratori in attività a tempo indeterminato, maggiormente tutelati; dall’altro una vasta sacca di precariato, soprattutto giovanile, con scarse tutele e retribuzioni.
Riequilibrare la flessibilità del mercato del lavoro, oggi quasi tutta concentrata nelle modalità d’ingresso, migliorerebbe le aspirazioni di vita dei giovani; spronerebbe le unità produttive a investire di più nella formazione delle risorse umane, a inserirle nei processi produttivi, a dare loro prospettive di carriera.
Le relazioni industriali devono favorire l’ammodernamento e la competitività del sistema produttivo, nell’interesse di tutte le parti. Sono stati compiuti passi per rafforzare il ruolo della contrattazione aziendale, ma la prevalenza di quella nazionale, l’assenza di regole certe nella rappresentanza sindacale ancora limitano la possibilità per i lavoratori di assumere impegni nei confronti dell’azienda di appartenenza; ne attenuano la capacità di influire sulle loro stesse prospettive di reddito e di occupazione.
La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema, su cui stiamo ora concentrando la nostra ricerca. Oggi il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli; le retribuzioni sono, a parità di istruzione ed esperienza, inferiori del 10 per cento a quelle maschili.
Il tempo di cura della casa e della famiglia a carico delle donne resta in Italia molto maggiore che negli altri paesi: aiuterebbero maggiori servizi e una organizzazione del lavoro volti a consentire una migliore conciliazione tra vita e lavoro, una riduzione dei disincentivi impliciti nel regime fiscale.
Il sistema di protezione sociale deve essere posto in grado di offrire, a chi perde definitivamente il lavoro e ne cerca attivamente un altro, un sostegno sufficiente; occorre che la sorte di chi lavora in aziende che non hanno più prospettive di mercato sia resa meno drammatica, anche per non ostacolare il fisiologico ricambio delle imprese.
Fra gli imprenditori e i lavoratori italiani vi sono capacità, energie, per imprimere una nuova accelerazione alla crescita. Le nostre indagini sul campo hanno negli ultimi anni documentato, nonostante la crisi, importanti segni di vitalità di molte imprese.
Ma quelle capacità ed energie sono frammentate.
Le imprese italiane sono in media del 40 per cento più piccole di quelle dell’area dell’euro. Fra le prime 50 imprese europee per fatturato sono comprese 15 tedesche, 11 francesi, solo 4 italiane. La struttura produttiva del nostro paese appare statica: i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari.
Nei primi anni Sessanta gli stabilimenti manifatturieri con oltre 100 addetti assorbivano in Italia il 43 per cento dei lavoratori del settore, contro oltre il 60 in Francia e in Germania. Da allora la quota è scesa in Italia assai più che in Francia e Germania, fin sotto il 30 per cento.
La flessibilità tipica delle piccole imprese, che in passato ha contribuito a sostenere con successo la nostra competitività, oggi non basta più. Occorre un maggior numero di imprese medie e grandi che siano in grado di accedere rapidamente ed efficacemente ai mercati internazionali, di sfruttare i guadagni di efficienza offerti dall’innovazione tecnologica.
Quando a una nostra impresa si presenta la concreta opportunità d’ingrandirsi, agisce da remora non solo un contesto fiscale, normativo e amministrativo ancora percepito come incerto e costoso, ma anche un assetto aziendale spesso mantenuto impermeabile a soggetti esterni. Una diffusa proprietà familiare delle imprese non è caratteristica solo italiana; lo è invece il fatto che anche la gestione rimanga nel chiuso della famiglia proprietaria.
Fra le imprese manifatturiere con almeno 10 addetti, quelle in cui sia il controllo sia la gestione sono esclusivamente familiari sono il 60 per cento in Italia, meno del 30 in Francia e in Germania; in queste imprese la propensione a innovare è minore, l’attività di ricerca e sviluppo meno intensa, scarsa la penetrazione nei mercati emergenti.
Le imprese italiane hanno in media meno patrimonio di quelle degli altri paesi avanzati; è scarsa la diversificazione delle fonti di finanziamento, in gran parte di origine bancaria, ed è elevato il peso dei debiti a breve scadenza.
Per incentivare il ricorso al capitale di rischio andrebbe ridotto, nel quadro di una complessiva ricomposizione del bilancio pubblico, il carico fiscale sulla parte dei profitti ascrivibile alla remunerazione del capitale proprio. Includendo l’IRAP, l’aliquota legale sui redditi d’impresa supera di quasi sei punti quella media dell’area dell’euro.
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Le considerazioni finali sono sempre un’occasione per esprimere valutazioni. Questa volta sono anche l’occasione per guardare indietro a questi cinque anni.
La crescita economica del nostro paese è stata il mio punto fisso. Non è un problema nuovo, ma rivendico alla Banca d’Italia il merito di averlo messo al primo posto nelle priorità di politica economica.
Quale paese lasceremo ai nostri figli? Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. A distanza di cinque anni, quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore.
Perché la politica, che sola ha il potere di tradurre le analisi in leggi, non fa propria la frase di Cavour “…le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”?
Grazie alla laboriosità, all’ingegno, alla capacità di sacrificio, nei 150 anni della sua storia unitaria il nostro paese ha compiuto grandi progressi nelle condizioni materiali di vita. Abbiamo vissuto fasi di sviluppo impetuoso: nel primo quindicennio del Novecento il prodotto per abitante aumentò del 30 per cento; dopo la seconda guerra mondiale, si accrebbe del 140 per cento in quindici anni.
A ridosso di quelle due fasi l’Italia seppe esprimere una unità di intenti di fondo: nell’affrontare la prova della prima guerra mondiale, nella mobilitazione civile e morale che, pur nella eterogeneità delle forze che ne furono protagoniste, produsse la nostra Costituzione.
In altri periodi il progresso, lo sviluppo, sono stati frenati da divisioni, conflitti di fazione, un indebolirsi della fiducia fra cittadini e Stato. Molti squilibri, in primo luogo quello fra Nord e Sud, sono stati solo in parte sanati. Le diversità sono una cifra storica dell’Italia, più che di altri paesi. Da fonte di ricchezza esse si sono non di rado tramutate in reciproca interdizione, blocco dello sviluppo.
Oggi siamo per molti aspetti in una condizione migliore. Antiche contrapposizioni sono in gran parte venute meno. In Europa, i progressi verso forme sempre più avanzate di integrazione e, in Italia, una inedita condivisione della diagnosi dei problemi che affliggono l’economia rappresentano favorevoli punti di partenza. Va raggiunta una unità di intenti sulle linee di fondo delle azioni da intraprendere. Ciò che può unire è più forte di ciò che divide.
Oggi bisogna in primo luogo ricondurre il bilancio pubblico a elemento di stabilità e di propulsione della crescita economica, portandolo senza indugi al pareggio, procedendo a una ricomposizione della spesa a vantaggio della crescita, riducendo l’onere fiscale che grava sui tanti lavoratori e imprenditori onesti.
La crescita di un’economia non scaturisce solo da fattori economici.
Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un paese. Scriveva ancora Cavour: “Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico… Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue dei suoi progressi economici”.
Occorre sconfiggere gli intrecci di interessi corporativi che in più modi opprimono il Paese; è questa una condizione essenziale per unire solidarietà e merito, equità e concorrenza, per assicurare una prospettiva di crescita al Paese.
Già nel mio primo intervento pubblico da Governatore della Banca d’Italia, nel marzo del 2006, notavo come l’economia italiana apparisse insabbiata, ma che i suoi ritardi strutturali non andavano intesi quali segni di un declino ineluttabile: potevano essere affrontati, dandone conto con chiarezza alla collettività, anche quando le soluzioni fossero avverse agli interessi immediati di segmenti della società.
Poche settimane dopo, mi rivolsi a voi in questa sede con le parole di apertura “Tornare alla crescita”. Con le stesse parole vorrei chiudere queste considerazioni finali.
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