Il rischio della globalizzazione? Ritrovarci in periferia.
Tutto va bene, i dati economici sono confortanti. L'inflazione e' annullata, il deficit statale ridotto, c'e' sviluppo economico, entriamo nella moneta europea, la Borsa sale trionfalmente. Eppure, parlando con la gente dei piu' diversi strati sociali, non si nota ottimismo. Fra i giovani non c'e' slancio verso il futuro. E vi sono anche degli indicatori obiettivi di sofferenza. Come il tasso di disoccupazione giovanile, che nel Mezzogiorno e' altissimo e accompagnato dalla ricerca, senza fantasia, di un lavoro statale. Ventimila persone per un posto di vigile, centomila a un concorso della polizia. Fra i giovani che non trovano lavoro cresce una nuova criminalita' diffusa, stupida e feroce. Ne sono ormai straziate anche regioni come la Puglia, un tempo immuni. Un altro segno di sofferenza e' il crollo delle nascite. Abbiamo il tasso di natalita' piu' basso del mondo. Guardando con piu' cura, scopriamo che la nostra struttura produttiva e' profondamente mutata. Trant'anni fa eravamo all'avanguardia nella chimica, nella farmacologia, nel nucleare, nell'elettronica. Avevamo una importante industria aeronautica, cantieristica, alimentare, cinematografica. Le nostre imprese di costruzioni operavano in tutto il mondo. Poi le societa' italiane hanno chiuso o sono state vendute. Il capitale e il potere di decisione sono passati nelle mani delle multinazionali, delle superbanche con i loro quartieri generali negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Svizzera. Gli economisti ci dicono che e' conseguenza del processo di globalizzazione, e non riguarda solo l'Italia. Il mondo e' diventato un unico mercato in cui si affermano i migliori. D'altronde quello che conta e' il reddito, non chi possiede il capitale e dove viene esercitato il controllo. Ma e' proprio vero? Dal punto di vista del Paese, delle opportunita', delle carriere della gente, la differenza e' abissale. E' solo nel centro che vengono prese le decisioni, che si forma il grande management, che viene progettata la ricerca scientifica. Le imprese italiane avevano i loro laboratori di ricerca in Italia, lavoravano in stretta collaborazione con le Universita' italiane. Le multinazionali americane o giapponesi si servono dei loro laboratori, ricorrono sempre meno ai nostri o lo fanno per cose marginali. Ma senza integrazione con le imprese, senza commesse, la ricerca si spegne. Certo, gli scambi con l'esterno sono cresciuti, molti progetti di ricerca sono internazionali. Ma riguardano solo una minoranza. Il sistema, nel suo complesso, si impoverisce. A mio giudizio non ci rendiamo conto che la globalizzazione produce anche concentrazione. Siamo affascinati da Internet, dalla facilita' di comunicazione. Pensiamo che crescano solo le opportunita'. Ma non e' vero. Mentre cresce la rete di connessioni, si rafforzano anche i gangli nervosi di controllo. Si formano superpoteri economici, politici e culturali, a cui corrispondono sterminate periferie. Molti ritengono che, per l'Italia, questa situazione cambiera' con il completamento dell'unificazione europea. Non ne sono sicuro. Se non siamo piu' che vigilanti, con l'unificazione potrebbe accaderci quello che e' accaduto al Meridione italiano dopo l'unita'. Il centro politico si e' spostato a Roma, quello economico al Nord. Le imprese meridionali sono state spazzate via, ricche e stupende citta' come Napoli sono decadute e la loro cultura si e' spenta