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Con riguardo al secondo degli “argomenti forti della difesa” a suo tempo identificati, i giudici hanno avuto vita facile. E’ semplice infatti per loro argomentare come il cd “alert” o “avviso” la cui asserita assenza ha costituito un punto chiave del reasoning del giudice Magi, a detta del quale Google avrebbe dovuto avvertire in modo chiaro, esplicito e puntuale gli studenti che caricavano il video incriminato, circa l’esistenza ed i contenuti della legge sulla protezione dei dati personali, non ha niente a che vedere con l’obbligo di informativa previsto dall’art. 13 del Codice privacy.
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Ed effettivamente il giudice d’Appello rileva che “esistono due distinte modalità di trattare i dati che non possono essere, a parere di questa Corte, considerati in modo unitario”. In particolare i giudici, continuano, seguendo in questo caso il ragionamento proposto, in particolare, dall’avv. Carlo Blengino, uno dei difensori di Google, affermando che “trattare un video non può significare trattare il singolo dato contenuto, conferendo ad esso finalità autonome e concorrenti con quelle perseguite da chi quel video realizzava”.
Si tratta di un passaggio molto delicato che andrà approfondito a dovere. Da esso potrebbe dedursi non soltanto che Google, nel caso di specie, non fosse titolare del trattamento e che questo ruolo, evidentemente, lo ha giocato chi ha caricato il video, ma anche che lo stesso Google, in relazione al singolo dato sensibile, immagine del povero ragazzo utilizzata con determinati fini decisi dal titolare e calata, per volontà dello stesso controller, in un contesto in cui emergeva, connotata negativamente e dunque in modo lesivo della propria dignità, la sua disabilità, non fosse neanche processor, responsabile del trattamento. Su questo si discuterà prossimamente.
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Cosi come non potrà non essere oggetto di discussione il passaggio in cui il giudice d’Appello rileva che “l’evoluzione della rete informatica mondiale sembra aver superato nei fatti la figura di mero prestatore di servizio, che veniva elaborata all’epoca della direttiva sul commercio elettronico e che delineava tale soggetto come del tutto estraneo rispetto alle informazioni memorizzata, sia a livello di gestione, che di regolamentazione contrattuale con i destinatari del servizio. Applicando tale riflessione generale ai servizi offerti da Google, ed anche questo farà discutere, i giudici rilevano come “valutati tutti gli elementi nel caso, la possibilità del filtraggio, della rimozione, dell’individuazione di contenuti tramite parole chiave, dell’indicizzazione dei contenuti e della eventuale utilizzazione a fini pubblicitari, portano a ritenere che Google video non possa che essere qualificata quantomeno come hosting attivo”.
su quest'ultimo punto mi vorrei soffermare...
ho già sostenuto in altra sede che qui mi pare si stiracchi la norma di esenzione di responsabilita' prevista dalla direttiva per gli hoster.
quando fu scritta, infatti, l'idea era dell'hosting puro, per cosi' dire "passivo".
se si accetta che e' esente anche l'hosting "attivo", mi pare che l'intero impianto venga meno.
come tracciare la soglia tra "hosting attivo" esente da responsabilita' ed "hosting attivo" conr esponsabilita' ?
e' sufficiente il fatto che sia una macchina (un algoritmo o meno) a prendere le decisioni piuttosto che un umano ?
perchè con sistemi di intelligenza artificiale, reti neurali, analisi semnatica e quan't altro posso immaginarmi un sito di "hosting attivo" che mette in evidenza solo contenuti che fanno apologia di fascismo (ad esempio) e potrei sostenere "lo ha fatto la macchina".
secondo me questo e' un punto di riflessione (lo dissi anche ad una riunione all'IBL proprio sulla questione vividown)